di Piero Maroni
Oltre che ad un'abitudine serale, era anche un momento molto importante nell’alimentazione della gente di Romagna, tanto che val la pena citare ancora il Pascoli che la definì “il cibo nazionale dei romagnoli”.
Sulla scia del poeta sammaurese, si innesta Aldo Spallicci (Santa Maria Nuova, 22 novembre 1886 – Premilcuore, 14 marzo 1973), fondatore della rivista di studi romagnoli intitolata “La piè”, nonché medico pediatra e senatore della Repubblica Italiana eletto nelle fila del Partito Repubblicano.
Come poeta fu uno dei più prolifici divulgatori della poesia dialettale romagnola tanto che numerosi sono i suoi libri pubblicati nella nostra parlata popolare al suo tempo in netta controtendenza con il mondo dei letterati, e non solo, che consideravano il dialetto “la lingua dei poveri e degli ignoranti”.
Con le sue poesie Spallicci conferì la dignità di lingua letteraria al dialetto e nel contempo esaltò l'identità della Regione e del Romagnolo, come si evidenzia in questa poesia che è divenuta il manifesto di questa terra.
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E' rumagnul
E’ Signor, fat e’ mond,e’va un po in zir
e cun San Pir e’ passa do parol;
e intant ch’j è int una presa,u i fa San Pir:
“La Rumagna t’lè fata e e’ rumagnùl?
Ui vo dla zenta sora a sti cantìr,
t’a n’vrè zà fè la mama senza e’ fiul”?
“Me a t’e’ farò, mo l’ha dal bròt manir
e a j ho fed ch’u n’gni azova gnianca al scòl”.
E’ daset ad chelz par tèra cun un pè
e e’ faset saltè fura ilè d’impèt
e’ vigliacaz de’ rumagnul spudè.
In mang ad camisa, svidurè int e’ pèt,
un caplìn rudè com un fatòr;
“A so qua mè, ciò, boia ded’ S…..!”
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Il romagnolo
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Il Signore, fatto il mondo,va un po in giro
e con San Pietro scambia due parole,
e mentre sono in un podere, gli fa San Pietro:
“La Romagna l’hai fatta,e il romagnolo?
Ci vuol gente sopra questi campi ,
non vorrai mica fare la mamma senza il figlio?”
“Io te lo farò, ma ha brutte maniere,
e credo che non gli giova nemmeno la scuola”.
Dette un calcio per terra con un piede
e fece uscir fuori lì dirimpetto
il vigliaccaccio del romagnolo sputato.
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In maniche di camicia, sbottonato sul petto,
un cappellaccio a ruota come un fattore;
“Sono qua io, allora, boia del S….!
Per Spallicci la piada era il simbolo e la rappresentazione della casa, bastava il suo profumo a risvegliare nelle persone lontane dalla famiglia, la nostalgia del luogo natio e questo sentimento trova espressione in una sua canta in cui narra la grande e gradita sorpresa di un fante in trincea durante la prima guerra mondiale, nel ricevere da un commilitone e compaesano che è stato in licenza, la piada che gli ha inviato sua madre.
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La piè (canta ‘d trincera)
“Csa j et, e mi Angiulin
csa j et incla gulpé?”
“La j è pr’e’suldadin
l’è ròba da magné!”
Oh Dio la piè!
Udor da cà
che riva i qua
e e’ sent chi ch’magna
eria ‘d Rumagna,
oh Dio la piè!
“Chi manda ste tvaiol,
ste bèl tvaiol ‘d bughé?”
“A che purett de’ fiol
la mama tuva ‘d te.”
“Chissà quèl ch’la dirà
parchè ch’la s’feza bon!”
“T’apensa a i tu da cà
t’la megna in divuzioun.”
“Spartegna la gulpé
ch’a i vlen pinser in du”.
E al boch a gli ha magné
e j occ j ha un po’ pianzù.
Oh Dio la piê!
Udor da cà
che riva i qua
e e' sent chi ch' mâgna
eria 'd Rumâgna,
oh Dio la piê!
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LA PIADA (CANTA DI TRINCEA)
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“Cos’hai o mio Angiolino
cos’hai in quell’involto?”
“E’ per il soldatino,
è roba da mangiare!”
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Oh Dio la piada!
Odore di casa
che giunge fin qua
sente chi la mangia e
aria di Romagna,
oh Dio la piada!
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“Chi manda questo tovagliolo,
questo bel tovagliolo terso di bucato?”
“A quel povero figliolo
la mamma sua.”
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“Chissà quel che ella dirà
perché buon pro gli faccia!”
“Pensando ai tuoi cari
che te la mangi con devozione.”
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“Dividiamone il contenuto
affinché possiamo pensarci in due”.
E le bocche hanno mangiato
e gli occhi hanno un po’ pianto.
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Oh Dio la Piada!
Odore di casa
che arriva fin qua
e sente chi la mangia
aria di Romagna,
oh Dio la piada!
Sempre di Spallicci è questa bella poesia risalente al 1933, che si è cercato di adattare al dialetto sammaurese anche se per esigenze di rima qualcosa del forlivese si è dovuto lasciare. Descrive una di quelle situazioni che capitavano spesso quando soffiavano impetuosi i venti invernali ed entravano discendenti nella cappa, il camino allora non tirava, il fumo riempiva la cucina e non restava altro che spegnere il fuoco e andarsi a letto prima che si poteva.
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L’È ANDAÈ DA MAÈL LA PIDA
Vent d’arvers ch’us s’insaca e’ feun
e e to prinfena e’ fié,
u s’è smurtaè la legna tra i cavdeun
e at saleut la mi pié.
Dròinta la gòula de’ camòin, la bura
la rogia e la s’adana
e la j aroiva sa dagl’j òndi da ‘d fura
ch’la paèr una campana.
A spazarem l’arola, ch’ai mitrem
zendra e burnoisa insen.
S’l’è andaè da maèl la pida sòura la tègia
la j è finoida la vègia.
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LA PIADA E’ ANDATA A MALE
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Vento a rovescio che insacca il fumo
e toglie perfino il respiro,
si è spenta la legna tra gli alari
e ti saluto piada.
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Entro la cappa del camino, la bora
ringhia dannata
e arriva a ondate da lungi
che pare un rombo di campana.
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Spazzaremo l’arola radunando
cenere e cinigia.
Dacchè è andata a male la piada sulla teglia
è finita la veglia.
12 anni dopo, nel 1945, il verucchiese Giuseppe Pecci riprende il tema e gli dà un orientamento assai più ottimista.
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L’È TURNAÈDA LA PIDA
La tramuntaèna l’ha ‘rpurtaè e’ temp bon
e us cmòinza a tiré e’ fié;
l’ha ciapaè fugh la legna tra i cavdeun:
l’è òura ‘d cus la pié.
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La s’è s-ciaroida ormai la nòta scura,
e’ tampaz us sluntaèna
e la j aroiva sa dagl’j òndi da ‘d fura
ad fèsta la campaèna.
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A ‘rguarnizem l’arola, ch’ai mitrem
legna e carbòun insen,
s’l’è turnaèda la pida sòura la tègia
ech l’arcmòinza la vègia.
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E’ TORNATA LA PIADA
La tramontana ha riportato il buon tempo
e si torna a riprendere fiato;
la legna tra gli alari si è riaccesa:
ed è ora di cuocere la piada.
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La notte oscura s’è schiarita,
e il maltempo s’allontana
e da fuori arriva ad ondate
il suono festoso della campana.
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Apparecchieremo di nuovo l’arola,
ci metteremo legna e carbone insieme,
se è tornata la piada sopra la teglia
ecco che ricomincia la veglia.
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