La piada di Giovanni Pascoli
Probabilmente non sapremo mai chi l’ha inventata, dove e quando e probabilmente non vi è mai stato uno o una a cui attribuire il merito della scoperta, è, la piada, una di quelle pratiche nate dal popolo per dare una risposta alla miseria e di conseguenza alla fame così che ogni gruppo sociale aveva proprie peculiarità nell'approntare questo tipo di focaccia. Del resto fa parte del suo carattere sfuggire alle regole, nel riminese è sottile, a Cesena e a Forlì grossa almeno il doppio, provate poi a mangiare piade preparate da mani diverse, gli ingredienti sono sempre gli stessi, ma ogni piada ha qualcosa di diverso dall’altra a seconda della mano che l’ha confezionata, per cui la pida più buona era sempre quella che si faceva nella propria casa e dalla stessa mano, quando non trascorreva sera che non la si preparasse.
Ho un vivo ricordo delle piada della mia infanzia, quando era mia mamma a prepararla, e questo avveniva nella stragrande maggioranza dei casi, aveva un determinato impatto col mio gusto, quelle rare volte che era mia nonna a provvedere per varie ragioni, la piada era diversa e neanche mi piaceva molto e mio babbo che non era spesso gentile con sua madre, diceva secco: “Sta pida la fa schiv!” (Questa piada fa schifo!).
Sentite cosa ne pensa Tonino Guerra in una intervista concessa a Sergio Zavoli nel 2003.
… in fondo la piadina è una bella testimonianza di quello che erano e sono i sapori principali che teniamo in bocca. Ho trovato piade orrende in giro. Orrende perché mi baso su quello che ho mangiato nell’infanzia. E siccome ho sempre mangiato la piadina di mia mamma, dico che quella di mia mamma è la migliore del mondo.
Ognuno, se tiene presente questo, si accorge che, dopo aver mangiato la piadina di casa propria per trent’anni, viene drogato dalla piadina casalinga.
La piada è il mio pane, quello che arriva ad alimentare i miei pensieri…
Per secoli e secoli, come s’è detto, della piada non se n’è fatta menzione alcuna, perché la povera gente la mangiava e taceva, il primo a darle dignità e lustro è il nostro Giovanni Pascoli, è il primo a chiamarla “piada” e a nobilitarla nella sua poesia tanto da definirla “il pane, anzi il cibo nazionale dei Romagnoli".
Oltre a conferirle dignità culturale alla piadina raccontandola in versi, in varie sue opere il poeta parla del “pane di Enea”, del “pane rude di Roma”, legando l’origine della “piada” alla latina “mensa”, rinvenendola nel settimo canto dell’Eneide, come evidenziato nella puntata precedente.
In una nota di presentazione del poemetto “La Piada”, pubblicata su “Vita Internazionale” nel 1900, Pascoli scriveva: “Piada, pieda, pida, pié, si chiama dai romagnoli la spianata di grano o di granoturco o mista, che è il cibo della povera gente; e si intride senza lievito; e si cuoce in una teglia di argilla, che si chiama testo, sopra il focolare, che si chiama arola…”.
Sappiamo che Pascoli amava il buon cibo ed era un ottimo bevitore. Nel suo “nido”, la casa che abitava con le sorelle, ospitava spesso gli amici più cari per risollevarsi dagli impegni di studio e di lavoro e per distrarsi dai suoi turbamenti e offriva loro pranzi e cene tipicamente romagnole, che Mariù preparava con abilità,
Le due che seguono sono state ridotte alle parti che ci interessano più da vicino, cioè relative alla piada, perché molto più estese e complesse nel loro svolgimento.
IL DESINARE di G. Pascoli
Ubbidì Rosa al subito comando,
tacitamente. Sul taglier pulito
lo staccio balzellò rumoreggiando.
Il bianco fiore ella ammucchiò: col dito
aperse il mucchio, e vi gettava il sale
e tiepid’acqua dal paiolo avito.
Poi ch’ebbe intriso, rimenò l’uguale
pasta: poi la spartì: staccò dal muro
il matterello, strinse il grembiale;
e le spianate assottigliò col duro
legno, rotondo, a una a una; e presto
poi le portava al focolare oscuro.
Via via la madre le ponea nel testo,
sopra gli accesi tutoli; e su quello
le rigirava con un lento gesto:
né cessava il rullio del matterello.
LA PIADA rid. Da G. Pascoli
…Maria lo staccio! Siamo soli al mondo:
facciamo il pane che si fa da soli!
Voli lo staccio e treppichi giocondo,
vaporando il suo bianco alito fino,
che si depone sul tuo capo biondo.
E fai codesto con un tuo rumore
lieto, in cadenza: semplice, ma bello
per l’orecchio del pio lavoratore.
Il poco è molto a chi non ha che il poco:
io sull’arola pongo, oltre i sarmenti,
i gambi del granoturco, abili al fuoco.
Io li riposi già per ciò. Ma lenti
sono alla fiamma: e i canapugli spargo
che la maciulla gramolò tra i denti.
Nulla gettai di quello che non largo
mi rese il campo: la mia man raccoglie
anche i fuscelli per il mio letargo.
Serbo per il mio verno anche le foglie
aride. Del granoturco, ecco via via
mi scaldo ai gambi e dormo sulle spoglie.
Il mio povero mucchio arde e già brilla:
pian piano appoggio sopra due mattoni
il nero testo di porosa argilla.
Maria, nel fiore infondi l’acqua e poni
il sale: dono di te, Dio; ma pensa!
l’uomo mi vende ciò che tu ci doni.
Tu n’empi i mari, e l’uomo lo dispensa
nella bilancia tremula: le lande
tu ne condisci, e manca sulla mensa.
Ma tu, Maria, con le tue mani blande
domi la pasta e poi l’allarghi e spiani;
ed ecco è liscia come un foglio, e grande
come la luna; e sulle aperte mani
tu me l’arrechi, e me l’adagi molle
sul testo caldo, e quindi t’allontani.
Io, la giro, e le attizzo con le molle
il fuoco sotto, fin che stride invasa
del calor mite, e si rigonfia in bolle:
e l’odore del pane empie la casa…
(Continua)
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