SAN MAURO PASCOLI – (23 Agosto 2006) - «Sembra proprio interminabile il racconto della vita di Giovanni Pascoli, dei suoi malesseri profondi e del suo burrascoso rapporto con la morte, gli altri, la storia. Chi si è finora spinto in quel mondo di campagna, in una realtà di provincia - certi luoghi romagnoli sospesi tra un passato carico d’ombre e un improbabile futuro all’insegna del moderno -, ha provato curiosità e inquietudine. Al centro di tutto si impone la tragedia di una famiglia: la morte di Ruggero, colpito da una fucilata, il 10 agosto 1867. Quello che accadrà poi avrà direttamente a che fare con l’assenza del padre. Senza questo trauma originario non si capirebbe la parabola umana, tanto meno la poesia di Giovanni Pascoli. Che tutto ciò rappresenti non solo gran parte della storia letteraria dell’ultimo secolo ma altresì una sorta di snodo attraverso cui l’immaginazione poetica e una determinata condizione esistenziale e socio-antropologica si sono intimamente intrecciate, lo hanno efficacemente indagato critici e scrittori come Pasolini, Sanguineti, Garboli. E, dunque, cos’altro c’è da aggiungere a quello che si è voluto definire «mistero Pascoli»? Scavare nelle pieghe della sua contorta e complessa personalità può giovare a capirne meglio la poesia come si va dipanando da «Myricae» a «Canti di Castelvecchio», da «Primi poemetti» a «Nuovi poemetti»? La risposta appare senz’altro affermativa, a voler dare l’attenzione che meritano a due volumi, tra loro collegati dal filo tenace del racconto biografico e di una serrata analisi introspettiva: I segreti di casa Pascoli. Il poeta e lo psichiatra (Rizzoli, pagg. 243, euro 9,20) di Vittorino Andreoli, e Candida soror (Simonelli, pagg. 345, euro 25) di Maria Santini. Già apparso in forma ridotta nel numero 4 di «Quaderni italiani di psichiatria» (vol. XIX, Masson), con il titolo «La psicologia in Casa Pascoli», il libro di Andreoli esplicitamente si raggruma intorno al nodo psicopatologico del poeta, di cui mette lucidamente a fuoco, e con non poco accanimento diagnostico - proprio in veste di psichiatra -, i delicati rapporti con le sorelle Ida e Mariù, il vizio del bere, l’amore e gli amori, la virilità, la demenza. Gli ingredienti ci sono tutti perché ne esca un cibo ricco di spezie, in grado di stuzzicare l’appetito di quei lettori che nel poeta vanno cercando qualcosa di torbido. Del resto, la storia della letteratura di ogni paese ci ha messo generosamente a disposizione una ricca messe di documenti, episodi, testimonianze che hanno posto al primo piano le malattie, gli amori particolari, la follia di scrittori e poeti. Nel caso di Pascoli, ciò che più spiazza e colpisce è proprio il fatto che normalmente viene considerato il cantore della natura, il grande teorico e artefice della poetica del «fanciullino», quando poi i suoi versi brulicano di analogie, allusioni, rimandi, metafore, onomatopee che immettono nei franosi e inquietanti retroscena di un inconscio da cui si diramano segnali di dolore e di morte. L’esatto contrario di una visione rassicurante e consolatoria. Ed è proprio qui, in questo cono d’ombra, che l’Andreoli, svolgendo fino in fondo il ruolo di psichiatra, vuole dire una volta per tutte come stanno le cose: «Il mio desiderio è che parlare della vita del Pascoli serva a riportare tra la gente la sua poesia... Sono stato profondamente colpito dalla malinconia, dalla tragicità della vita pascoliana, del suo linguaggio, dal dolore nella sua poesia». Per Maria Santini, invece, entrare nell’universo del Pascoli significa passare prima di tutto attraverso la storia non meno significativa di sua sorella Maria, da lui immortalata come Mariù. È lei che sarà per vari lustri presente nella vicenda terrena del poeta, consigliandolo, guidandolo, confortandolo. A lei il poeta, nei periodi di lontananza, invierà intense lettere, dedicherà versi, si confiderà, vedendola non solo come sorella, ma soprattutto come amica e factotum. E tanta fiducia non andrà affatto delusa, se Mariù gli sarà vicino anche nei momenti più tristi, affiancandolo in attività extraletterarie come quella di coltivatore a Castelvecchio di una vigna. Produrrà qui il vino che chiamerà «Flos Vineae». Ma quanto importante e definitiva sarà la presenza di Mariù nel destino del Pascoli, dopo la sua morte, l’autrice di Candida Soror lo racconta nella quinta parte, «La Signora di Castelvecchio». Così la rappresenta Maria Santini: «La signora di Castelvecchio appare rigida, impettita, severa. Amministra l’immagine di Giovannino con spietata efficienza: altrettanto fa con i beni che lui ha lasciato, Castelvecchio e le sue opere». Come in un sottile e malioso gioco di specchi, l’immagine del Pascoli che balza fuori dalle pagine di puntigliosa analisi introspettiva dell’Andreoli e di scrupolosa veridicità biografica della Santini, appare labirintica e complessa. A ciò si accompagna una sensazione insistente: che la vita del poeta di «Myricae» si presenti come il doppio della sua immaginazione, del suo regno di fantasmi, concrezioni subliminali, ombre. In Pascoli, insomma, le parole si agglutinano intorno a un’assenza, a un vuoto, a un ineluttabile pericolo di frana. Ed è proprio il vuoto, l’assenza, il pericolo di frana che fanno continuamente capolino dai documenti, dai reperti, dai ricordi allineati sia dallo psichiatra, sia dalla biografa per fare luce quanto più è possibile su un destino d’uomo e di poeta. Che sfugge da ogni parte.» (Tratto da Il Mattino del 10 luglio scorso dal titolo “Il lato oscuro di Pascoli” a firma di Michele Sovente.
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