SAN MAURO PASCOLI – (7 maggio 2005) – Il rapporto di Giovanni Pascoli con la religione è sempre stato piuttosto controverso: da una parte la sorella Mariù, col suo tentativo di imporre un’immagine di poeta bravo e rispettoso dei principi religiosi; dall’altra una buona fetta di studiosi, intenti a sottolineare la laicità del personaggio. Quale che sia la verità fa un certo effetto leggere l’editoriale pubblicato sull’Avvenire del 19 aprile scorso a firma di Luigi Testaferrata (“Pascoli, Trilussa e l’ansia del Papa”), nella quale la morte di Giovanni Paolo II ha fatto ricordare la poesia di Zvanì.
«Quando il libro rosso dei Vangeli fu posato sopra la bara di Giovanni Paolo II, la mattina dell'8 [aprile, ndr], sulla spianata spoglia di San Pietro, mi ricordai di Giovanni Pascoli. Non so se il Santo Padre abbia avuto familiarità con la poesia di Zvanì, non mi pare, comunque, che l'abbia mai dichiarata: diversamente da Papa Luciani che si era divertito a dichiarare, durante le sue straordinarie catechesi, la sua passione per le poesie di Trilussa che qualche volta recitò con una incredibile, festosa pronuncia agordino-romanesca. Lo dissi subito a mia moglie che dalla sera del 2 aprile divideva con me tutto quello che i programmi televisivi ci facevano passare davanti agli occhi ed entrare dentro gli orecchi. “È come "Il libro" dei Primi Poemetti” dissi. E infatti il cronista ricordava la ragione per cui il Vangelo era stato messo sulla bara, il vento che soffiava forte nella grande piazza e alzava le vesti rosse dei Cardinali e le bandiere di tutte le nazioni sopra le teste della folla avrebbe mosso le pagine, le avrebbe sfogliate una dopo l'altra, o tante insieme, avanti e indietro, e si sarebbe creato il senso di una presenza invisibile che rivisitava la vita del grande Defunto che era stata un Vangelo vivente. Proprio come accade col libro che Pascoli inventa sul leggìo di quercia nell'altana e dice che c'è “uno” che cerca affannosamente qualcosa sfogliando le pagine, ma non dice chi e che cosa. D'altronde Pascoli - anche se nessuno lo nominava - poteva essere sentito come una presenza quasi indispensabile quella mattina in quel posto: perché dentro la grande Basilica il cui interno veniva mostrato di quando in quando dagli apparecchi della Tv, si scorgeva la tomba del Santo Leone XIII che aveva avuto in comune con Karol Wojtyla, oltre certe linee programmatiche del Pontificato, alcuni dati anagrafici quasi inquietanti (tutt'e due eletti nel '78, tutt'e due entrati nel secolo successivo, il primo fino al 1903, il secondo fino al 2005) e tornava alla mente la poesia pascoliana (dei Nuovi Poemetti) “La morte del Papa”, soprattutto perché Papa Pecci vi appare come “uno che può, se vuole” portare l'anima di chi muore con lui (la vecchina della Garfagnana, ricordate?) “avanti alla Madonna”, proprio come si sa che fa a farà Papa Wojtyla. Il bello successe, però, quando il libro sulla bara di Giovanni Paolo II, dopo essere quasi impazzito al vento come quello pascoliano, a un certo punto si chiuse, rimase chiuso su un lato del coperchio. “Consummatum est” disse mia moglie. Ed era la verità. Era il tempo preciso della Liturgia Eucaristica, sull'altare si rinnovava il sacrificio della Croce, il Papa Santo era arrivato con Cristo alla fine delle sue sofferenze, cominciava il tempo della Resurrezione, tutto era compiuto. E il libro, che non era quello “del mistero” sfogliato da chi cerca il “vero”, ma era il libro di Chi ha indicato e aperto la via della verità e della vita, il libro rosso sulla bara di Papa Wojtyla rimase fino alla fine perfettamente chiuso. Per quanto il vento continuasse a soffiare e facesse volare tutti i panni, bandiere, stendardi, striscioni, cappelli e fazzoletti che empivano la piazza, non si mosse di un millimetro. Perché si apriva, in una luce chissà come splendida, in un altro Luogo.» (Da L’Avvenire del 19.04.2005, “Pascoli, Trilussa e l’ansia del Papa” a firma di Luigi Testaferrata.)
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