Alcuni giorni fa 15 studenti sammauresi hanno preso parte al progetto “Promemoria Auschwitz” nei terribili luoghi del genocidio nazista. Insieme a loro c’era anche il nostro collaboratore Piero Maroni, al quale ho chiesto (con insistenza) una testimonianza della visita. È un po’ lunga ma leggetela, ne vale la pena.
di Piero Maroni
Lo confesso, scrivo queste righe solo per l'insistenza di Filippo, l'ideatore e creatore di questo giornale online, ma non per pigrizia o sottovalutazione dell'evento, quanto perché il cumulo di sensazioni ed emozioni è tale che difficilmente può essere condiviso con altri, è un fatto che attiene alla propria sfera personale, alla nostra sensibilità, difficile da esprimere e comunicare ad altri.
Durante tutto il percorso di visita, la nostra mente vaga incessantemente cercando un appiglio a cui sostenersi per non essere travolta dal carico di dolore e angoscia che ci investe
di fronte a ciò che si para davanti ai nostri occhi.
Eravamo tantissimi quel giorno a peregrinare lungo quei sentieri colmi di storie tragiche, il solo gruppo degli italiani provenienti da diverse regioni, ammontava a 800 ragazzi, maschi, ma più femmine, di sedici-diciassette anni a cui andavano aggiunti gli accompagnatori e altri gruppi di diverse nazionalità. Ci si accatastava, ci si ammucchiava, ci si scontrava, ma non si udiva altro suono se non il fluido narrare delle guide preposte, il silenzio era la nota dominante dello stare di ciascuno di noi.
Eravamo tantissimi, ma in quegli interminabili attimi ti sentivi solo con la tua angoscia, con la mente sconvolta da un'infinità di pensieri che sconfinavano nell'irrazionalità e che mai avresti condiviso con te stesso e quando ti giravi per cercare nei visi dei vicini un'espressione di condivisione per tentare di spezzare l'accumulo di dolore che ti martellava la testa, incontravi solo facce smarrite, occhi rossi di lacrime e silenzio, tanto silenzio, rotto solo di tanto in tanto da lunghi respiri o veloci soffiate di naso, i più piangevano, ma, come in ogni attimo di quella giornata, in silenzio.
Ripeto, difficilmente riuscirò a svuotare il mio animo, ma per chi ha ancora intenzione di continuare la lettura, mi sforzerò di raccontare alcune note di cronaca con alcune mie riflessioni su quanto percepito.
Ci siamo aggiunti a Cracovia al gruppo dei ragazzi sabato mattina per visitare con loro il museo allestito nella fabbrica di Schindler, l'industriale tedesco che rischiando la propria vita riuscì a salvare centinaia e centinaia di ebrei. La guida in lingua italiana ci racconta l'occupazione militare tedesca della Polonia occidentale, l'altra metà la prese con la forza la Russia di Stalin e, in ambedue i casi, ci furono stragi di uomini e di popolazione inerme.
La Germania di allora, forte della convinzione della superiorità della propria razza, voleva schiavizzare i polacchi per usarli come manodopera per i loro fini e la prima operazione da compiere era eliminare ogni forma di resistenza, dissidenza o sospetto di ribellione. I primi a dover essere eliminati erano gli intellettuali il cui spirito critico poteva essere un impedimento alla totale assoggettazione di quel popolo. Fu così che il comandante delle truppe d'invasione convocò l'intero corpo docente dell'università di Cracovia prospettando la possibilità di un patto di collaborazione, risposero in 183, quasi tutti, ma dopo averli accusati di insubordinazione, furono arrestati e tradotti nei campi di concentramento in Germania dove venivano costretti gli oppositori del regime, qualcuno, gli anziani, fu poi rilasciato, ma la maggior parte non vide più la propria patria.
Nell'attraversamento di un corridoio ci sono da superare tre bandiere naziste con la croce uncinata, distese allo stesso modo con cui riempivano le strade della città occupata, tutti ci stringiamo il più possibile alla parete, nessuno vuole sfiorarle. Con attenzione seguiamo il racconto delle difficoltà di vita della popolazione polacca sotto il dominio tedesco, racconto che diviene quasi insopportabile quando l'accanimento nazista si rivolge in particolar modo su quei cittadini di origine ebraica, l'origine era la loro unica colpa. E per questo furono perseguitati con feroce crudeltà, costretti ad abbandonare le loro abitazioni e obbligati a vivere ammassati in più di venti mila in un ghetto che prima di loro conteneva tre mila polacchi e da cui non potevano uscire, circondati da un alto muro costruito in fretta e furia con le sembianze delle tombe funerarie ebraiche a voler loro preannunciare l'imminente esito finale della loro esistenza.
L'ultima tappa della giornata è la piazza del ghetto, laddove venivano radunate le famiglie, caricate sui carri e, come bestiame, condotte nei campi di concentramento di Auschwitz e Birkenau per essere ridotte in cenere e fumo. Molti di loro neanche raggiunsero quei campi, durante la lunga attesa furono fucilati sul posto. Quando la guida aggiunge che per risparmiare pallottole per eliminare i bambini, considerati del tutto inutili, le Esse-Esse accostavano le loro teste a tre a tre, così che bastava un sol colpo per trafiggerle, mi sono rifiutato di crederlo, non è possibile, mi dicevo, vi possa essere un essere umano capace di tale crudeltà, forse la guida ha esagerato nella concitazione della narrazione, cercavo una credibile rassicurazione, ma l'indomani la realtà dei campi di concentramento spazzerà via ogni mio minimo tentativo di costruire difese per resistere alla manifestazione del male.
Il giorno seguente, domenica 3, sveglia alle 6, per essere alle 9 ai cancelli di Auschwitz, è una giornata grigia, di nebbia fitta e freddo pungente, qua e là si notano resti di trascorse nevicate, per terra è melma e fango. Gli accompagnatori ci avvertono, oggi sarà un giorno pesante, tranquillizzano i ragazzi, per ogni bisogno, possono in qualsiasi momento contare su di loro. Cerco allora di irrobustire le mie difese, di cosa posso stupirmi che ancora non so? Ho studiato la storia, letto libri, visto film, ascoltato racconti dei pochi scampati, ho una conoscenza abbastanza esauriente degli avvenimenti, credo dunque di poter controllare le mie emozioni con una sufficiente logica razionalità.
Ma l'ipocrita scritta sul cancello all'ingresso del campo: ARBEIT MACHT FREI (il lavoro rende liberi) mette un brivido lungo la schiena, i fili spinati che si perdono nella nebbia e i gelidi blocchi delle palazzine in cui venivano stipati i reclusi sollevano immediatamente un disagio profondo.
Il culmine è però quando si visitano gli interni, la vista delle foto che documentano la vita nel campo e degli oggetti appartenuti a quelle povere vittime innocenti, fa saltare ogni difesa e la mente cerca disperatamente di rappresentarsi un responsabile di tanto strazio ed emergono inutili domande alle quali da lungo tempo non si poneva più il pensiero: dov'era Dio in quel momento? Come può Egli aver creato simili mostri a sua immagine e somiglianza? Come può un essere istruito ed educato sprofondare in tali abissi di orrore? Come abbiamo potuto perdonare la Germania per tali misfatti?
Cerchi una logica impossibile, la cerchi inutilmente nei visi sofferenti di chi ti sta vicino, ma la montagna di valigie di cartone col nome di chi l'ha posseduta, i capelli rasati dagli aguzzini alle loro vittime prima di condurle nelle camere a gas, gli occhiali da vista, i rasoi per la barba, gli oggetti per la vita di tutti i giorni, gli abiti e, la presenza più straziante, le piccole scarpe e i vestitini di bambini e bambine in tenerissima età, morti di fame, di stenti o condotti sotto docce da cui scaturivano gas letali, ti sommergono e ti trascinano in un abisso di dolore dove ogni pensiero svanisce nel nulla e ti rimane solo una angoscia impotente.
Una breve pausa per un panino e poi via a Birkenau, distante un paio di chilometri, l'altro campo di concentramento costruito in fretta per contenere la massa crescente dei condannati a morte, ci sono da sterminare gli Ebrei, gli Zingari, gli Omosessuali, i Testimoni di Geova, gli Oppositori alla tirannia nazista, i Prigionieri di guerra; ci si avvicina alla “Soluzione finale” vagheggiata da Hitler e dai suo accoliti, tutti questi devono morire perché esseri inferiori.
Arrivano treni colmi ogni limite, scaricano esseri umani ignari del loro destino, in fila davanti al medico nazista vengono divisi in due gruppi con un dito della mano, da una parte gli abili al lavoro, dall'altra chi prenderà la via delle camere a gas e dei forni crematori perché inadatti e quindi inutili, ed è la sentenza definitiva per gli anziani, i disabili, i bambini e le loro madri che non si vogliono separare da essi, morranno abbracciati insieme.
Se Auschwitz era terribile, Birkenau è un incubo, si pensava di aver attraversato del tutto la sfera del dolore, qui invece siamo oltre il limite della sopportazione, descrivere le lugubri baracche di legno in cui vivevano coloro che di umano era rimasto solo la parvenza, non sono sufficienti le parole, occorre immergersi in quella realtà di uomini ridotti a trenta-quaranta chili di peso e donne a venti-trenta, costretti a lottare tra di loro per un posto in una squallida fredda cuccetta o per poter soddisfare i propri bisogni collettivamente, uno accanto all'altro, una volta al mattino e un'altra alla sera e dover vivere una condizione tanto disumana da desiderare la morte come una liberazione.
Persino alla guida, che ci racconta la vita e l'orrore di quel campo, ogni tanto si rompe la voce sopraffatto dalla commozione e chissà quante altre volte lui avrà compiuto questa immersione nel dolore profondo, noi ne usciamo sconvolti.
E quando alla fine tutti insieme ci si ritrova per un ultimo saluto, risuona forte il monito di Primo Levi: “... perché tutto questo non accada più!”.
Prima però di uscire dal campo, rivolgo alla guida una domanda che mi preme: “Vengono i tedeschi in visita a questi campi di concentramento?”. “Sì”, mi risponde, “tanti giovani studenti come i vostri, anche da loro c'è il desiderio che mai più si ripeta quel che è stato!”.
Due milioni e mezzo di visitatori all'anno, provenienti da tutto il mondo e in massima parte giovani, forse l'essere umano può ancora coltivare la speranza.
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