di Gianfranco Miro Gori
Il 20 gennaio del 1920 nasceva a Rimini Federico Fellini, uno dei principali registi della storia del cinema e il più famoso se non più grande artista italiano del Novecento. Purtroppo i tanti e importanti festeggiamenti approntati per questo centenario della nascita si sono scontrati con una pandemia che ne ha limitato fino a ora la portata.
Credo - se ho capito, almeno un po', lo spirito del Maestro - che lui l'avrebbe presa con ironia (i mancati festeggiamenti intendo), giacché non amava particolarmente celebrazioni e simili.
Al proposito voglio raccontare un vicenda esemplare. Nel 1966 finalmente Fellini accetta di ritornare per la prima volta in modo ufficiale nella sua città: presenterà il suo ultimo film Giulietta degli spiriti. L'evento è per i riminesi eccezionale. Il regista all'epoca vanta già un clamoroso successo. Ha vinto Oscar, festival, ha realizzato film di risonanza mondiale. Insomma è già un “monumento”, anche se assai attivo; e la sua città natale non chiede altro che di accoglierlo in pompa magna. Non manca qualche spirito critico, beffardo; per esempio, come ci dice un aneddoto esemplare, Elio Pasquini detto e' Nin, un bravo tecnico delle luci. Fellini, reduce da La dolce vita, e dunque noto in tutto il mondo, ritorna a Rimini e passeggia sul corso principale con alcuni amici. E' Nin è seduto su un sedia fuori dal caffè, mi pare il Commercio. Il regista lo interpella: “Oh Nin, cosa fai?”. “Mè gnint e te?”, è la risposta lapidaria.
Ma torniamo alla nostra vicenda, su cui ha scritto un racconto molto bello, L'attesa del panfilo, Sergio Zavoli, profondo conoscitore del rapporto tra Rimini e Fellini.
La cosa curiosa è che alla vibrante lettera d'invito del sindaco, il regista aveva risposto ringraziando ma con l'invito a non fare “patacate”. Fellini amava profondamente la sua terra, ne è conferma ulteriore l'uso del lemma dialettale o meglio l'italianizzazione del vernacolo patachèdi, che significa adesione a una lingua che rappresenta un mondo: il suo mondo dell'infanzia e della giovinezza. Il regista infatti userà ampiamente il dialetto romagnolo soprattutto in Amarcord ma non solo. Perché il dialetto è per lui, nelle frenetiche trasformazioni della Rimini del dopoguerra, un legame inscindibile col suo paese.
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