Una volta m'è capitato di dire che il cervello dei sammauresi ha la forma di una scarpa. Giocavo sulla parola forma che, oltre ai suoi significati principali - a partire da “aspetto esteriore” -, ne ha uno tecnologico: è l'attrezzo che modella la scarpa, appunto. Alludevo nel medesimo tempo all'economia e all'immaginario. L'industria calzaturiera è la locomotiva dell'economia sammaurese: sia dal punto di vista del fatturato sia da quello dei lavoratori impiegati. La scarpa appartiene al campo della moda inscritta, a sua volta, nel “made in Italy” che ha uno spazio e un ruolo assai rilevanti nell'immaginario collettivo. Il “made in San Mauro” (in dialetto “fat a Sa' Mèvar”) ne è un segmento quantitativamente modesto ma con caratteri peculiari di alta qualità. Anzitutto conserva componenti artigianali, e l'artigianato, non a caso, ha nella sua radice la parola arte; e fonda il suo successo - rivolto soprattutto al mercato internazionale, languendo quello interno - sulla creatività e l'innovazione unite al “know how” (l'inglese nel caso è d'obbligo, magari con traduzione in dialetto: “savòi cmè”) costruito nei decenni da tanti ignoti calzolai alcuni dei quali sono divenuti imprenditori famosi nel mondo. Che fanno scarpe da donna buone e belle (come dice un imprenditore locale: le donne sono già belle, con le nostre scarpe le rendiamo ancora più belle). E costose. Citerò i maggiori: Baldinini, Casadei, Pollini, Rossi, Vicini/Zanotti... Che poi qualcuno di loro abbia ceduto l'azienda è un altro discorso. Così funziona il mondo globale. O, più in particolare, “glocale”. Termine che nasce dalla fusione di globale e locale; e pone l'accento sul fatto che la piccola dimensione può influire sulla grande. Com'è successo a San Mauro. La dico così: le scarpe “fatte a San Mauro” hanno poderose radici e altrettanto poderose ali: si nutrono nel paese e volano nel mondo. Nella retorica storicista nazionale una frase ricorrente è: veniamo da lontano. Nel caso sammaurese è vero: decenni, come ho detto, o forse secoli di lavoro “me banchèt” (al deschetto). Già nell'Ottocento sono attestati un discreto numero di calzolai. Nel Novecento si lavora per l'esercito, soprattutto. Infine, col boom economico, l'affermazione. Un verso di Guglielmo Giovagnoli (vedi “poeta”), nel notevole libro di poesie in dialetto “E' zapatìn dal chèsi”, fa risuonare la voce di Mussolini che, in una visita a San Mauro, chiede ai calzolai accorsi attorno a lui: “Aviv dal schérp, aviv dal schérp da fè? (Avete delle scarpe, avete delle scarpe da fare?)” . Ruggero Tognacci (vedi “pascoliano”) racconta, nel bel libro Zvanì, che Pascoli (voce “poeta”) amava arrivare a San Mauro di sorpresa per vedere gli operai in tenuta da lavoro e in particolare i calzolai col loro “tagliuzzato grembiule di pelle tinto di pece e di anilina”. Pascoli dedicò una poesia a un bambino senza scarpe: Valentino. I calzolai sammauresi hanno calzato, simbolicamente, i piedi nudi di Valentino.
Gianfranco Miro Gori
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